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INCONTRO CON MONSIGNOR FRANCESCO BRASCHI 10 DICEMBRE 2018

"Un uomo colto, un europeo dei nostri giorni, può credere, credere proprio,

nella divinità del Figlio di Dio Gesù Cristo?" (F. Dostoevskij)

La fede nella società post-cristiana

Riflessioni a partire dalla lettura dei libri

"Dove è Dio?" di J. Carrón e "L’opzione Benedetto" di Rod Dreher

 

Introduzione. Il lavoro sulla domanda.

Voi avete già lavorato almeno per due serate sulle due pubblicazioni che sono state proposte, e già questo aspetto ci pone in una prospettiva di risposta alla domanda che è stata messa in epigrafe all’incontro, la famosa frase di Dostoevskij: “Un uomo colto, un europeo dei nostri giorni può credere, credere proprio, alla divinità del Figlio di Dio, Gesù Cristo?». Il lavoro fatto presuppone sicuramente già un inizio di risposta a questa domanda e, nello stesso tempo, possiamo entrare nel metodo giusto per vivere questa serata, perché una cosa è certa: non siamo qui per un esercizio accademico, come se fosse questa semplicemente l’occasione per sfoggiare una conoscenza teologica o per vedere chi tra di noi cita di più o cita meglio gli autori importanti… se così fosse, scusate, avrei avuto di meglio da fare in questa serata! Invece penso che il punto fondamentale da cui partire sia come avete giudicato il lavoro fatto sui due testi, cioè come vi hanno mosso e che cosa vi hanno fatto guardare diversamente della vostra esperienza quotidiana.

In ogni caso, questo titolo “La fede nella società post-cristiana” che cosa vi ha suscitato dentro, tanto che vi ha spinto a venire a questo incontro?

  • 1) Le due prospettive di Carron e Dreher sono presenti anche nel Cristianesimo dei primi secoli.

Questo è il punto imprescindibile di partenza. Perché? Perché quando noi confrontiamo le due prospettive che sono aperte da Carrón e da Dreher, noi possiamo - come hanno fatto tanti - contrapporle e quindi parlare di un’opzione più apocalittica e comunque che paventa un arrivo veloce dei barbari, cui si contrappone un’opzione più contemporanea, più aperta, più ottimista… come qualcuno dice. Io penso invece che porre l’una contro l’altra queste due opzioni sia un’operazione abbastanza superficiale, che consisterebbe nel non riconoscere un impegno e un’onestà intellettuale di fondo, che mi sembra davvero si possano riconoscere ad ambedue gli autori.

Che cosa possiamo allora dire? Queste due prospettive, queste due possibilità, poi verificheremo se davvero è così… [io personalmente dell’Opzione Benedetto mi sono fatto un’opinione che forse non è quella più vulgata, più diffusa…], comunque queste due opzioni “maggiore apertura” o “maggiore diffidenza - o volontà di mettere i puntini sulle i, separando nettamente la proposta cristiana dalla cultura dell’ambiente”, in fondo le abbiamo incontrate fin dall’inizio della storia cristiana, non sono una novità di adesso!

Se prendiamo degli autori come Tertulliano o Taziano il Siro (II secolo), Lattanzio (III-IV sec), Giulio Firmico Materno (IV secolo), vediamo che si tratta di autori che hanno preso di petto il mondo, lo hanno contestato fortemente. Tertulliano se la prende non solo con i pagani, scrive un’opera che usa molto spesso l’ironia per prenderli in giro, dice: “ma voi avete in orrore il fatto che noi cristiani mettiamo tutto in comune, una sola cosa noi non mettiamo in comune… voi mettete in comune le vostri mogli, noi le mogli non le mettiamo in comune!”. E c’è un’intera opera, l’Apologeticum, che è tutta giocata su queste accuse. Per Tertulliano, la miglior difesa era l’attacco, sicuramente. Oppure Taziano il Siro - che è discepolo di S. Giustino Martire che invece è esattamente sull’altro versante -, che scrive una serie di invettive contro i pagani nel suo Discorso ai Greci, nel quale accusa la filosofia greca di aver rubato le sue idee da popoli più antichi e più saggi e quindi  il suo compito è quello di ristabilire una verità, dicendo “voi non avete proprio nulla da insegnare a noi!”.

Oppure pensiamo a Lattanzio, che si sofferma a scrivere il De mortibus persecutorum, dove sostiene che Dio ha punito adeguatamente i pagani che avevano perseguitato la fede cristiana e descrive in maniera persino efferata la morte di questi tiranni, o a Giulio Firmico Materno che, dopo l’editto di Costantino, arriva a scrivere cose di questo tipo: “Spogliate, spogliate tranquillamente sacratissimi imperatori i templi dei loro ornamenti; il fuoco della zecca o la fiamma dei crogioli distrugga questi dei! A voi sacratissimi imperatori Dio ha comandato di reprimere e punire l'idolatria di perseguitarne severamente i delitti”, Dio comanda di non perdonare al fratello; esorta a trafiggere con la spada vendicatrice le membra della cara sposa, eccita il popolo a straziare il corpo degli empi e indice la strage di intere città qualora le sorprenda nella superstizione.

Questo è un esempio per fortuna abbastanza isolato, ma abbiamo conosciuto anche questo tipo di relazione col mondo e con la cultura, e questa del IV secolo, se uno volesse leggere nella forma più appuntita L’opzione Benedetto, faremmo il confronto con l’abecedario dei bimbi dell’asilo rispetto a questo tono di Giulio Firmico Materno.

Dall’altra parte abbiamo autori come Clemente Alessandrino, come Clemente Romano, come la Lettera a Diogneto, il famoso testo in cui si parla dei cristiani come dell’anima del mondo… Conosciamo Giustino Martire che è il primo a riconoscere nella cultura greca e latina, in particolare nella nozione di logos che i filosofi tanto avevano studiato, una preparazione alla Rivelazione. Giustino non rinuncia ad affermare la novità e la precisione della Rivelazione cristiana ma nello stesso tempo riconosce quasi come una preparazione; il termine di preparazione evangelica lo userà poi Eusebio di Cesarea per dire che tutta la storia che arriva fino a Cristo non è tutta da buttare via, assolutamente ha anch’essa un ruolo e una funzione provvidenziale.

 

  • 2) L'insegnamento della storia

Allora, se siamo effettivamente davanti anche noi oggi, alla versione moderna di questa contrapposizione, di questa divergenza che esiste fin dai tempi del cristianesimo, in questo caso noi ci dobbiamo domandare: “Che cosa ci può insegnare la storia?”. Quali sono i punti fondamentali che ci consegna, innanzitutto per rispondere alla domanda: “Come vivere la fede nella società post-cristiana?”. Perché non dobbiamo dimenticare che il cristianesimo si è affermato in una società che non solo non era cristiana ma che affermava positivamente alcuni valori che sono agli antipodi della fede cristiana.

Facciamo solo un esempio: nelle opere di Porfirio (filosofo del III secolo) si dice:

“Qualcuno va pensando che un uomo cambi quando ottiene misericordia, questa è follia! Nemmeno per paura si cambia veramente… figuriamoci se una persona cattiva può cambiare quando trova qualcuno che lo tratta bene!”.

E i cristiani venivano accusati di essere dei distruttori della morale pubblica, perché affermando il perdono di tutti i peccati nel battesimo, istigavano i giovani a fare tutto quello che vogliono ben sapendo che al momento del battesimo avranno il perdono di tutti i peccati.

Ecco, in questa situazione però il Cristianesimo si è affermato, fino a diventare poi maggioritario all’interno dell’Impero… e come mai? Come ha fatto? Non c’era la Congregazione di Propaganda Fide, non c’erano gli istituti missionari, non c’erano i piani pastorali per raggiungere i lontani… C’erano semplicemente i cristiani e sono stati proprio loro, con una vita che era in molte cose assai simile a quella di tutti, ma che si distingueva poi su alcuni aspetti-chiave (come si stava davanti al nascere e al morire, come si stava davanti al rapporto uomo-donna, come si stava davanti alla cura e all’educazione dei figli…), ed è stato questo che a poco a poco è arrivato a toccare e a cambiare la considerazione e la vita di molti.

Eusebio di Cesarea ci racconta nella Storia ecclesiastica che nei primi anni del 300 d.C., quando arrivò al massimo la persecuzione dei cristiani, quando i Cristiani erano accusati di essere quelli che con la loro superstizione avevano scatenato la rabbia degli dei, quindi carestie, terremoti, guerre civili, invasione dei barbari… (e la gente spesso credeva  a queste accuse che venivano ripetute dalla propaganda dell’Impero, ma anche dal popolino), ebbene vedendoli e conoscendoli, vedendo come non volevano rinnegare la loro fede, vedendo anche però come si comportavano nella vita quotidiana… ci dice Eusebio che molti pagani venivano mossi a compassione e si chiedevano se fosse davvero giusto, anche per il bene dell’Impero, perseguitare queste persone. Ecco, questo è stato ciò che ha provocato quel grande cambiamento che è stato l’Editto di Milano del 313 d.C. e la fine delle persecuzioni contro i cristiani.

Non sono discorsi che ricordiamo semplicemente per amore della storia, ma sono discorsi che ci rimettono - penso -  sui binari giusti per guardare quello che anche noi oggi siamo chiamati a fare! Speriamo di non trovarci anche noi nelle condizioni di pericolo di vita che vivevano i cristiani dei primi secoli, (anche se non è del tutto da escludere questa prospettiva… forse non in Italia, ma sicuramente in altre parti del mondo sì), ma certamente, ci aiuta a capire qual è il significato più profondo di parole come “fede”, “testimonianza”, “annuncio” e “martirio”.

  • 2.1 Il punto di partenza

Allora, proviamo a guardare qualche punto essenziale. In uno scrittore del II sec., tale Papia di Gerapoli - che è uno dei padri apostolici -, troviamo un’affermazione che a me sembra sempre un punto di partenza formidabile. La Chiesa ormai possedeva i Vangeli e si stava anche completando il processo che ha portato al riconoscimento dei 4 vangeli canonici, c’erano i testi a cui tutti potevano rifarsi. In quel momento c'era chi sosteneva che bastava leggere e seguire i Vangeli per vivere la fede cristiana. Il Cristianesimo cos’era? Leggere il Vangelo e seguirlo!

Papia, che è un vescovo della città di Gerapoli nell’Asia Minore, scrive:

“Io non provavo diletto, come fanno i più, da coloro che dicono molte cose, ma io cercavo coloro che insegnano cose vere, non  quelli che riferiscono precetti di altri, ma quelli che insegnano precetti dati dal Signore alla nostra fede, precetti sgorgati dalla stessa verità”. Cosa vuol dire questo? Si potrebbe obiettare che anche i Vangeli trasmettono i precetti del Signore! Ma Papia afferma:

“Se in qualche luogo mi imbattevo in qualcuno che avesse convissuto con i presbiteri”, cioè i Cristiani della seconda generazione, venuti subito dopo gli apostoli, “io cercavo di conoscere i discorsi dei presbiteri”, cioè di quelli che raccontavano che cosa disse Pietro, che cosa disse Andrea, Filippo, Giacomo ecc. o qualcun altro dei discepoli del Signore, “poiché ero convinto che i libri non mi sarebbero stati tanto utili come udire la parola viva di coloro che ancora sopravvivevano”.

E qui abbiamo uno degli elementi fondamentali della trasmissione della fede, che ancora oggi è vale per noi. La fede, dice San Paolo, nasce dall’ascolto, ma da un ascolto vivente di una persona vivente! Cioè la forma di trasmissione della fede è la forma testimoniale che ha una sola possibilità, cioè quella della convivenza, della convivenza intesa come la possibilità di condividere una parte di cammino con qualcuno attraverso la cui vita, attraverso la cui parole, in quanto confermate dalla vita, io riesco a riconoscere qualcosa che altrimenti non mi saprei spiegare, se non con una presenza in quella persona che è inassimilabile, inconfondibile con qualunque semplice sapienza umana.

Allora questa potrebbe essere la prima domanda: io posso dire il nome di qualcuno che mi ha trasmesso questa fede? Lo posso ritrovare e riconoscere? Questo aspetto fu decisivo per i cristiani dei primi secoli, per riconoscere quando la fede di una chiesa era corretta, cioè era corrispondente all’insegnamento di Cristo. Ma questo vale anche per noi, perché altrimenti basterebbe riempire la chiesa di scaffali di libri, basterebbe convincere le persone che vale la pena prendere in mano i 4 vangeli, e noi avremmo convertito tutta la popolazione che si lascia convincere! Sappiamo bene che questo non accade, non accade praticamente mai!

Allora, questo è il primo aspetto: la fede come consegna, come tradizione, questo è il significato del verbo latino tradere,  che potremmo tradurre con “trasmettere di mano in mano”, attraverso una catena che non si interrompe. E questo, infatti, nei Paesi dell’Est è uno dei punti decisivi per la trasmissione della fede, perché laddove si è mantenuto, per quanto esile, un filo di trasmissione che passava magari dalle nonne o da una chiesa che poteva solo celebrare la liturgia, che passava magari da qualche scarsa nozione che veniva trasmessa, lì ha potuto rinascere una relazione viva con la fede. Dove invece quello che è rimasto è solo una tradizione culturale, come l’identificazione tra l'essere di una certa confessione ed appartenere ad un determinato stato, ecco che lì è veramente difficile che si generi veramente la fede. Si può generare un’appartenenza culturale che può avere anche una convenienza in alcune situazioni, ma che porta poi sovente a non riuscire ad uscire da una serie di riti che potremmo definire riti un po’ consolatori e un po’ dei riti di passaggio, cioè una forma celebrativa che in fondo in fondo avevano anche i Pionieri dell’epoca comunista, quando si passava da un grado all’altro, o anche come accadeva nella Germania dell'Est che aveva una serie di cerimonie inventate dal partito che tendevano a sostituire i momenti tipici scanditi dai sacramenti cristiani.

Quindi questo è il primo aspetto: una trasmissione della fede che diventi esempio e intuizione, proprio perché vedo che l’esperienza di essere cristiani significa avere una vita animata da qualcosa che ti viene dato, che non è semplicemente una tua invenzione o una tua abilità.

  • 2.2 La fede come fiducia per la ragione

Secondo aspetto: non c’è soltanto l’aspetto della trasmissione della fede, ma c’è anche una fede che sia una sfida piena di fiducia per la ragione. Proviamo anche in questo caso a spiegarci attraverso una domanda che mi è arrivata. “Se l’illuminismo ha separato la fede dalla ragione, allora noi possiamo portare la fede solo a chi usa la ragione. A chi non usa la ragione ha senso portare il Vangelo?”.

Diciamo innanzitutto che è difficile non usare mai del tutto la ragione! Potremmo dire che forse chi non vuole usare la ragione ha bisogno di riscoprire la convenienza della fede anche per la ragione. Proviamo a spiegarci.

So che uno dei punti su cui avete lavorato è l’affermazione secondo cui l’illuminismo ha staccato la fede dalla ragione. In realtà è un processo che inizia ancora prima. In un suo articolo del 1995, J. Ratzinger individuava nella fine del Medio Evo e nell’inizio dell’età moderna, con la riforma protestante, questo momento di cambiamento radicale del rapporto tra fede e ragione, ma c’è anche un altro aspetto che è stato messo in luce da Jean-Luc Marion, un filosofo francese che riflette sul famoso “cogito ergo sum” (penso dunque esisto) di Cartesio. Cartesio ci mostra come con lui si cominci ad avere un uomo che per trovare un punto di aggancio solido da cui poter riconoscere la propria esistenza lo cerca nel suo pensiero: tutto quello che ha intorno è soggetto al dubbio, l’unica cosa da cui ripartire è “io penso, dunque esisto”. Qui abbiamo già la riduzione dell’uomo in senso intellettualistico.

Ma c’è un altro aspetto, perché Cartesio ha anche staccato l’uomo dall’aspetto affettivo! Il “penso dunque esisto” non riconosce un dato che è lampante nell’esperienza di tutti, e cioè che io so di esistere quando qualcuno mi vuole bene!

Posso anche non farmene molto del fatto di sapere che penso, anzi il fatto di pensare di continuo può diventare anche una sorta di condanna, può diventare un avvilupparsi continuamente in pensieri che non portano da nessuna parte! Ma quello che mi garantisce della mia esistenza e mi fa percepire la mia esistenza non come una condanna è l’affetto che qualcuno mi dimostra.

Sartre, alla metà del secolo scorso, era arrivato a dire che l’uomo è la più sciagurata di tutte le realtà esistenti, perché l’uomo è l’unico animale condannato a decidere cosa vuol fare della propria vita – egli, infatti, non è guidato soltanto da un istinto, ha dentro comunque qualcosa di più – sapendo che qualunque scelta faccia, qualunque decisione prenda, alla fine questa non gli eviterà la morte e non gli eviterà che non rimanga nulla di lui.

Certamente la prospettiva di Sartre era una prospettiva antimetafisica, totalmente atea e nichilista. Ma a questo può portare l’esito del pensiero. Invece, quando io scopro che ciò che più mi fa sperimentare il mio esistere è la scelta che un altro fa di me, la preferenza di un altro, l’affetto che un altro mi dimostra, allora io ho la documentazione non solo che esisto, ma anche che l'esistenza è buona! E questo non è poco!

Perché è da qui che io posso ripartire a cercare un'unità della persona, per ritovare anche il significato corretto della ragione. Perché quello che l’illuminismo ha effettivamente prodotto è stata la riduzione della ragione a quella che viene chiamata la ragione scientifica: la ragione è tutto ciò che si può misurare, sperimentare, riprodurre in laboratorio, questa sola sarebbe la vera ragione”. Tutto ciò che non rientra in questo campo va guardato come qualcosa che non ha un contenuto di verità pari a quello della ragione scientifica.

Però questa posizione cosa ha lasciato fuori? Ha lasciato fuori le esperienze più fondamentali della persona. L’esperienza di essere generato, accolto, amato. La stessa esperienza di amare non è misurabile: non posso dettare le condizioni perché accada l’innamoramento e che questo si trasformi in amore e poi riprodurre artificialmente queste condizioni in laboratorio ed essere certo che succederà esattamente la stessa cosa. No! Ma, appunto, ritrovare il nesso tra ragione scientifica e totalità della ragione, ritrovare in altre parole la ragionevolezza dell’amore, la ragionevolezza della fiducia, sono esperienze fondamentali perché si possa ritornare a parlare della fede.

Faccio un’affermazione grossolana forse, ma penso non così controvertibile: esiste una sorta di prodromo della fede che potremmo chiamare fiducia, capacità di fidarsi, non perché riduca la fede, come fanno i teologi luterani, all’aspetto solo fiduciale, no! Perché la fede è conoscenza nuova e perchè possa avvenire è necessario innanzitutto riconoscere la ragionevolezza del fidarsi, ovvero di non pensare come conoscenza solo quella che sperimentalmente io posso ottenere in prima persona.

Vi faccio un esempio facile: tutti voi avete imparato a leggere e a scrivere perché vi siete fidati della vostra maestra! Quando eravate in prima elementare nessuno di voi aveva gli strumenti critici per dire: “dimostrami che questa si legge O, questa A, questa U, non avevate gli strumenti critici per farlo! Voi vi siete fidati di una maestra che scriveva le lettere alla lavagna e vi diceva: ”Questa si legge A, questa si legge E, questa U”.

Ma questa fiducia che le avete dato si è dimostrata sommamente ragionevole, non solo perché avete imparato a leggere, ma anche perché fin da subito, da quando siete arrivati a casa e avevate per compito di ripetere l’alfabeto, voi avevate già uno strumento formidabile per la verifica della ragionevolezza di quello che vi era stato insegnato! Primo, perché c’era la mamma che vi provava le lettere, secondo perché appena avete cominciato a compitare 3-4 sillabe e avete cominciato col dito a cercare di leggere una parola in un libro, in un abbecedario, se la maestra vi avesse insegnato a leggere le lettere in modo sbagliato voi non avreste capito nulla, perché se leggevate la E come A e la U come F non avreste potuto riconoscere nessun testo in quella lingua italiana che già praticavate.

Allora, capite cosa vuol dire questo? Vuol dire che quella forma di conoscenza che passa attraverso la fiducia: così snobbata, così degradata, così allontanata, in realtà è il fondamento della conoscenza!

Arriviamo allora alla fede, perché la fede presuppone un sapere che ti arriva per mezzo di testimonianza. C’è un passo bellissimo di S. Giustino, tratto dal Dialogo con Trifone, che racconta di tutta la sua ricerca. S. Giustino era un filosofo, muore martire alla fine del II secolo, siamo ancora nel periodo delle persecuzioni. In quel periodo lui aveva percorso tutte le scuole filosofiche e si era stupito perché diceva: “Se la verità è una, perché ciascuno di questi la racconta in maniera diversa?”. E poi aveva scoperto come tutte queste persone o mettevano mille ostacoli - perché tu possa conoscere la verità devi prima studiare la matematica, la geometria, la musica la logica ecc. - oppure dicevano: “Io ti posso insegnare la verità, però tu sei disposto a pagarmi le lezioni?”. S. Giustino afferma: Io me ne andai scandalizzato, perché pensai che se qualcuno metteva una tassa sulla verità non era un maestro, ma semplicemente un prezzolato! Poi andai anche da alcuni chiamati platonici che mi dissero che con molto sforzo e molto lavorio della mente forse un giorno sarei riuscito a cogliere un barlume della luce dell’assoluto. Mentre meditavo tutte queste cose tra me e me, me ne andai sul mare perché lì mi piaceva perdermi nei miei pensieri, e lì vidi un vecchio dall’aspetto non sgradevole che mi seguiva da lontano.

“Mi voltai e mi fermai davanti a lui, guardando più attentamente.

“Mi conosci?” Chiese quello. Gli risposi di no.

“E allora – soggiunse – perché mi guardi così?”

“Mi meraviglio che tu mi seguissi in questo luogo che di solito è deserto.”

“Sono qui – mi disse – mosso dalla preoccupazione per i miei familiari, che sono in viaggio. Sono venuto qui sulla riva per vedere se per caso mi si mostrano. E tu, invece, perché sei qui?”

“Mi piace, gli dissi, passeggiare così dove nessuno mi disturbi, per ragionare tra me e me.

Questi luoghi sono adattissimi per ragionare”.

“Ah, dunque sei uno che ama le parole, e non i fatti o la verità. E non provi ad agire, piuttosto che fare il sofista? … Non mi interessano né Platone né Pitagora né semplicemente alcuno che difenda teorie di questo tipo. La verità è questa e puoi apprenderla da quanto segue. L’anima, dunque, o è vita o possiede la vita. Se è vita farà vivere qualcos’altro, non se stessa, così come il movimento farà muovere qualcos’altro piuttosto che se stesso. Ma che l’anima viva, nessuno lo vorrà contestare. Se dunque vive, vive senza essere essa stessa la vita, bensì ha la vita perchè qualcuno gliel'ha data. Ora, ciò che partecipa di qualche cosa è diverso da ciò di cui partecipa. L’anima partecipa della vita perché Dio vuole che essa abbia la vita...”.

Questo vecchio in quattro parole aveva messo in scacco tutta la ricerca intellettuale di Giustino, ma poi gli dice:

“Molto tempo fa, prima di tutti costoro che son considerati  filosofi, vissero uomini beati, giusti e graditi a Dio, che parlavano mossi dallo Spirito divino e predicevano le cose future. Li chiamano profeti e sono i soli che hanno visto la verità e l'hanno annunciata agli uomini senza riguardo per nessuno e senza farsi dominare dall'ambizione, ma proclamando solo ciò che, ripieni di Spirito Santo, avevano visto e udito. Essi non hanno presentato i loro argomenti in forma dimostrativa, in quanto rendono alla verità una testimonianza degna di fede e superiore a ogni dimostrazione”.

Scrive poi: “Dopo aver detto queste e altre cose, quel vecchio se ne andò con l’esortazione a non lasciarle cadere, e da allora non l’ho più rivisto. Quanto a me, un fuoco divampò all’istante nel mio animo e mi pervase l’amore per i profeti e per quegli uomini che sono amici di Cristo”. Da qui inizia la conversione di Giustino.

 Perché comincia questa conversione? Perché questo vecchio, che Giustino incontra sul mare, demolisce tutto ad un tratto la sua lunga ricerca intellettuale e soprattutto perché gli racconta di questi uomini e, attraverso questo racconto, Giustino sente di poter amare quegli uomini che hanno amato a tal punto la verità da dare la vita per essa. Non è un caso che Giustino, quello che scrive queste pagine, sia anche il filosofo che ha saputo riunificare la cultura pagana con quella cristiana e riconoscere i segni del Verbo di Cristo, presenti anche nelle dottrine filosofiche precristiane, senza risparmiare le critiche, mettendo in luce anche quegli aspetti che lui riteneva opera del nemico. Giustino non era un irenista, ma è stato capace di riconoscere il valore della conoscenza per via di testimonianza.

Secondo aspetto della fede necessaria oggi nella società post-cristiana: è una fede che non si stacca dalla ragione perché impara ad usare tutta la ragione, ma proprio tutta: la ragione scientifico-matematica, ma soprattutto la ragione testimoniale e la ragione di fiducia, dovremmo chiamarla così… Ovvero: cosa diventa questo per quanto riguarda la fede? Diventa una fede che non accetta di mettere tra parentesi gli interrogativi più scottanti.

Facciamo un esempio: abbiamo visto tutti cosa è successo la notte tra giovedì e venerdì (la morte dei ragazzi in una discoteca). Davanti a chi si domanda perché è successo, che cosa è successo, dov'era Dio, io non posso pensare immediatamente che o questa persona accetta una risposta preconfezionata (“Era un disegno imperscrutabile di Dio”) o io devo guardare al fatto che chi mi fa questa domanda si lasci sfidare ad usare la ragione, che vuol dire: “Perché mi faccio questa domanda? Perché mi interessa di queste persone morte? Che cosa quello che è accaduto a loro dice a me?”.

Sembrano domande indiscrete, ma in realtà sono il modo in cui posso chiedere a quella persona di misurarsi con il suo desiderio di giustizia, con quello che significa per lei la solidarietà con gli altri uomini, e non perché mi devo fermare lì, ma proprio perché quello che è accaduto a quei ragazzi interpella quella persona, proprio perché fa una domanda alle sue paure, ai suoi timori, alle sue domande, io posso chiederle innanzitutto di essere leale con queste domande.

Il problema dell’umanità di oggi non è semplicemente non usare la ragione, ma è quello di fare di tutto per dimenticare le domande più essenziali. Avessimo persone che almeno non le nascondono queste domande, non le anestetizzano, saremmo già a metà del cammino!

  • 2.3 La vocazione del cristiano nei confronti del mondo

Terzo aspetto, è quello della vocazione del cristiano nei confronti del mondo. Vorrei citare una frase della Lettera a Diogneto dove si dice: “I cristiani svolgono nel mondo la stessa funzione  dell’anima nel corpo... L’anima, che pure sostiene il corpo, è rinchiusa in esso, anche i cristiani, pur essendo il sostegno del mondo sono imprigionati in esso, sono come in carcere. L’anima immortale abita in una dimora mortale, anche i cristiani vivono come stranieri fra ciò che è corruttibile, mentre aspettano l’incorruttibilità celeste… I cristiani, benché perseguitati, diventano ogni giorno di più. Dio ha assegnato loro un posto così sublime e ad essi non è lecito abbandonarlo”.

Cosa vuol dire una responsabilità nei confronti del mondo? Che la mia fede non mi è mai data semplicemente come appagamento delle mie domande, ma uno dei criteri di verifica della verità della fede è esattamente il fatto che sia qualcosa che non posso pensare di tenere solo per me.

Un secondo criterio di verifica della fede è che chi è fuori da me, gli altri, anche se non dovessi nemmeno dire di essere cristiano, possano vedere in me qualcosa che risveglia la loro domanda.

  • 3) Conclusione

Per concludere, potremmo declinarla così la domanda su quale sia la fede possibile in una società post cristiana: il problema non è semplicemente quello di un ottimismo o di un pessimismo davanti alla situazione di adesso, il problema è quello innanzitutto di una affezione a se stessi! Gesù ha detto: “Ama il prossimo tuo come te stesso”.

Ma cosa vuol dire “volermi bene”, avere un affetto per me? Vuol dire innanzitutto chiedermi di andare fino in fondo in questa domanda: chi mi dà di volermi bene? Chi mi dà uno sguardo, una rivelazione su quello che sono, che possa vincere tutte le paure e tutti i timori di essere sbagliato? Questo vale per tutti, anche per noi cristiani.

Questo non è una cosa scontata. Si può infatti vivere nella fede cristiana, restando convinti di essere sbagliati. Lo si vede da certe confessioni, nello scrupolo, nella dedizione a determinati servizi ecclesiali solo perché la gratificazione e il riconoscimento altrui mi sembrano l'unico antidoto alla paura di essere sbagliato, di non essere all'altezza.

L’affezione vera a me stesso è quella che chiede una serietà nella vita, cioè il fatto di non essere tranquillo fino a quando non riesco a riconoscere la mia vocazione. Questo purtroppo avviene sempre più tardi. Quando ero ragazzino, già in terza media si cominciava a parlare della vocazione e ricordo che quando, dopo la maturità, entrai in seminario, trovai metà dei miei compagni che avevano iniziato il seminario durante le superiori, qualcuno durante le medie. Questo voleva dire che avevano cominciato ben prima di me a riflettere sulla loro vocazione.

Oggi non c’è quasi nessuno che entri in seminario prima di aver finito l’università. Ma la scoperta della vocazione non è semplicemente la scelta dello stato di vita. La scoperta della vocazione è qualcosa di più profondo: è la scoperta della vita come vocazione, cioè il momento in cui comincio a guardarmi come uno che esiste perché è stato voluto e chiamato alla vita.

Questa volontà e questa chiamata non si concretizzano solo nel giorno in cui mi sposo o divento prete o quando prendo i voti monastici.

La vita come vocazione è una realtà che si concretizza nel modo in cui mi alzo dal letto ogni mattina. Perché io posso alzarmi dal letto convinto che la vita in fondo è affare mio, perché qualcuno mi ha dato un calcio buttandomi nel mondo e me la devo cavare, oppure posso iniziare la giornata come dice il Salmo 62:

“O Dio, tu sei il mio Dio, all’aurora ti cerco, di Te ha sete l’anima mia”… che vuol dire: “Mostrami, Signore, la via che hai pensato per me”, che vuol dire: “Questa giornata è la giornata in cui c’è Qualcuno che mi chiama alla vita e si rende presente attraverso le circostanze che mi sono date da vivere”.

Questo permette di dare alla persona quella unità che non vede più la separazione tra fede e ragione, tra lavoro e impegno parrocchiale, etica professionale e vita cristiana. L’unità della vita viene esattamente da questo fatto, dal riconoscere che fa unità nella mia vita colui che mi ha chiamato, mi ha donato la conoscenza di Lui e mi ha voluto in questa circostanza dicendomi: “Non ti abbandono”.

Alla fine, proprio per queste premesse la questione della fede è la questione della qualità dell'esperienza della fede e della testimonianza.

Qui vorrei citare quattro frasi del Vangelo perché le prendiamo sul serio. Prenderle sul serio non vuol dire essere sempre coerenti, altrimenti il Signore non avrebbe inventato il sacramento della confessione. Prenderle sul serio vuol dire domandarsi se dicono una verità, ma una verità che è qui, adesso, oppure se sono solo espressioni “cosmetiche”, del tipo di quelle belle frasi che ti solleticano il cuore al mattino, ma poi ti lasciano esattamente come prima.  

  1. “Senza di me non potete fare nulla” (Gv 15,5 – in barba all’umanesimo ateo).
  2. “Io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine del mondo” (Mt 28,20)

Se questa frase è vera io non posso più dire: “Il Signore non c’è”, o “Si è allontanato da me”, semmai la domanda sarà: “Cosa manca ai miei occhi affinché lo possa vedere?”. Capite che cambia tutto?!

  1. “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha (presente, non futuro) la vita eterna e io lo risusciterò nell'ultimo giorno (Gv 6,54)

Ha la “vita eterna” cosa vuol dire?

Nicola Cabasilas, grande mistico della Chiesa orientale, scrive: “Se l’esperienza della vita eterna non comincia già qui, non ci sarà dopo la nostra morte”. Ma qual è l’esperienza della vita eterna?

Una vita che abbia già dentro di sé questa caparra, questo anticipo, questo inizio di eternità. Sant’Agostino racconta che quando i pagani vedevano la mattina di Pasqua i cristiani che uscivano dalla veglia pasquale, correvano a casa e si chiudevano dentro. Non volevano vedere i cristiani la mattina di Pasqua, perché avevano un’espressione sul volto che per i pagani diventava un incubo, si domandavano come facessero ad essere così.

Ecco che cos’è la vita eterna! Questo non vuol dire che per i cristiani andasse tutto bene, fosse tutto perfetto: c’erano i Vandali alle porte! Però c’era questa certezza, di qualcosa che ci è già stato dato.

  1. “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui” (Gv 6,56)

Cosa vuol dire? Magari ritorneremo ancora su questo, perché anche i famosi racconti della vocazione dei discepoli, se li leggiamo molto attentamente, ci restituiscono un’immagine degli apostoli di una umanità enorme e ci fanno capire che per loro non fu questione di una folgorazione che risolse tutto in un momento, ma che anche per loro il riconoscimento della serietà con la loro vita e anche la responsabilità nei confronti degli altri fu qualcosa che ebbe bisogno di un cammino.

Come dire: se c’è qualcuno che rispetta, che conosce il nostro cuore come è fatto con tutte le sue necessità di tempo, di pazienza, di rassicurazione, è proprio il Signore!

Dunque, una fede che abbia le caratteristiche che abbiamo cercato di delineare non è qualcosa di impossibile o qualcosa di riservato a qualche mistico, ma è semplicemente l’itinerario della fede di sempre, che anche oggi è la risposta che possiamo dare a quello che il mondo si aspetta da noi!

Perché il mondo non ha bisogno di cristiani che facciano di tutto per nascondere quello che è stato dato loro!

In questo senso, e concludo, io non penso che l’opzione Benedetto sia l’opzione di crearsi dei posti tranquilli per prepararsi a un domani, quando le condizioni saranno migliori. No! Il Concilio Vaticano II e poi tutte le encicliche di san Giovanni Paolo II dicono che una fede che non si esprime nella missione muore, e non è nemmeno una fede vera!

Se, invece, l’opzione Benedetto è rifugiarsi nella sapienza monastica, nella sapienza di scelte radicali di fede che hanno segnato la storia della Chiesa, è quella per cui essere cristiani è una cosa seria e quindi richiede di avere spazi e tempi nei quali andare fino in fondo con l’esperienza della fede, allora da questo punto di vista l’opzione Benedetto mi sembra benedetta, da scegliere, da desiderare.

Se invece dovesse diventare l’idea che abbiamo un grande tesoro e ce lo teniamo per noi (verranno tempi migliori), allora penso che sia una mancanza di serietà con la propria fede, perché se ne dimentica un pezzo importante: quello che Diogneto chiamava “il compito che Dio ci ha dato nei confronti del mondo, il posto che non ci è lecito abbandonare”.

Dialogo

Saluto e ringraziamento di don Marco

Intervento

L’attuale assetto organizzativo delle parrocchie è in grado di restituire al mondo la presenza di Cristo risorto e di far riscoprire il nesso tra la liturgia e la vita quotidiana?

  1. Braschi

Vedo al banchetto dei libri un testo di don Giussani dal titolo “Dalla liturgia vissuta”: è un testo che pone domande sul significato della liturgia: “Liturgia: l’umanità resa consapevole dell’adorazione a Dio come suo rapporto supremo e del lavoro come gloria a Dio”. Che cosa c’entra il lavoro con la liturgia? La liturgia non può essere disgiunta dalla vita. Faccio l’esempio della coppia di sposi che volevano sposarsi portando la moto in chiesa al momento dell’offertorio, perché si erano conosciuto in un motoraduno. Concordammo alla fine di portare le chiavi della moto…, Perché faccio questo esempio? Perché noi abbiamo assistito a una banalizzazione della liturgia. Poi ci sono due assunti mai esplicitati, ma per molti preti e laici assolutamente incontrovertibili. Il primo: che la liturgia è una gran barba e se non ci mettiamo noi preti, la commissione liturgica, o quant’altro a renderla interessante, hanno tutte le ragioni i nostri fedeli a non trovarla interessante.

Questo è il presupposto mai confessato, ma operante. Io ho fatto la Prima Comunione nel 1975, in una chiesa alla periferia di Monza, dove avevano messo per la Prima Comunione dei bambini una tavola lunga e apparecchiata con tanto di piattino, bicchiere, forchetta, come in trattoria, il banchetto di Gesù e noi bambini seduti intorno. Ringrazio il Signore di avermi conservato la fede nell’Eucaristia, ma ne abbiamo veramente viste di tutti i colori! Mentre la liturgia e l’Eucaristia sono esattamente il momento in cui noi riconosciamo il significato delle nostre azioni, che senza Cristo sono niente.

La Messa incomincia con “Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”: noi siamo qui a fare una cosa nel suo Nome! Il primo gesto - il Segno della Croce – è rendersi conto che noi viviamo alla presenza della Trinità, ecco perché subito dopo c’è l’atto penitenziale.

Questa consapevolezza non la vivo 24 ore su 24, quante cose faccio come se fossi da solo, ecco perché la Chiesa ci mette all’inizio della Messa l’atto penitenziale.

Nasce una domanda. “Come posso fare per non vivere questa separazione, questo scarto?”.

La parola di Dio risponde esattamente a questa domanda. Perché, sia nell’antico Testamento che nelle letture degli Apostoli, ci documenta che cosa ha fatto Dio, in tutta la storia della Salvezza, per rincorrere l’uomo.

Giovanni Crisostomo dice: “Tu fuggivi da me come se fossi un tuo nemico”. Per questo le letture della Messa servono per farci prendere coscienza, in maniera sempre più dettagliata, perché toccano dei temi che hanno a che fare con noi: il lavoro, i figli, lo sposarsi, l’avere dei nemici, il mettersi a pregare, lo sperimentare la catastrofe…

Le letture raccontano storie di questo tipo, ma tutto questo per farci vedere qual è l’atteggiamento di Dio verso l’uomo.

È così arriviamo al momento importantissimo dell’offertorio. Ci sono delle preghiere molto interessanti, ce n’è una famosissima che si legge intorno a Natale: “Ti presentiamo, Signore, i nostri doni, in questo misterioso incontro fra la nostra povertà e la tua grandezza. Noi ti offriamo le cose che tu ci hai dato, tu donaci in cambio te stesso”.  

E un’altra preghiera che dice: “Dalla tua bontà abbiamo ricevuto questo pane, lo presentiamo a te…”. Cos’è tutto questo gioco di dare e ricevere? È che tutta la prima parte della Messa ci deve portare a riconoscere che io davanti a Dio sono a mani vuote, perché ho in mente tutto quello che ho fatto, pensando di confidare nell’opera delle mie mani e mi rendo conto che sono vuote, perché non piene di Lui! Ma anche davanti a questo riconoscimento, quello che il Signore offre è esattamente di riprendersi quello che noi in tutti i modi abbiamo cercato di rovinare, a cominciare dalla creazione, per restituircelo tutto fatto nuovo, come principio di comunione, cioè di vita insieme con Lui. Questo ci accade dall’offertorio alla consacrazione.

La Consacrazione perché avviene? Sant’Ambrogio e i grandi Padri della Chiesa lo avevano capito benissimo: il pane e il vino diventano corpo e sangue di Cristo perché noi che li mangiamo possiamo diventare noi il corpo di Cristo. Allora, cosa c’entra con il lavoro? Tu che mangi e diventi il corpo di Cristo, diventi tu un altro Cristo, che arriva a scuola, in officina, all’ufficio, al negozio, ovunque tu vada a lavorare!

Un autore monastico del Monte Athos fa un bellissimo commento: “A noi sarebbe sufficiente non buttar via, non contrastare quello che Cristo ci ha dato con l’Eucaristia, perché gli altri si accorgano di Lui in noi. Anche se noi non facciamo niente”. Quando mai ci pensiamo a tutto questo, quando andiamo a Messa? Non ci andiamo con questa consapevolezza! Capite che una liturgia così è veramente una bomba di profondità, capace di cambiare tutto?! Quindi, l’importanza della Messa è quella di vivere questa relazione, non è inventarsi mille cose o sperare che facendo leggere le preghierine ai bambini delle elementari vengano a Messa i genitori o i nonni, per vedere il nipotino che legge... Il rischio è di trasformare le nostre liturgie in un Maurizio Costanzo Show, dove si mette dentro tutto tranne quello che è l’essenziale.

Intervento di don Marco

L’Eucarestia è l’unico cibo che non siamo noi a trasformare, ma si trasforma Lui in noi. Questo aspetto non possiamo pensarlo come automatico, perché c’è sempre la nostra libertà che agisce, ma d’altra parte non pensiamo che sia una cosa che non si deve fare, altrimenti la Chiesa non ci avrebbe detto che dobbiamo fare la Comunione almeno una volta all’anno. Perché ha detto questo? Per un motivo molto semplice. È come se si dicesse: l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha decretato che l’uomo con meno di 1500 calorie non può vivere, ma se vuol vivere un pochino meglio ha bisogno di qualche cosa in più…

Pensate a qualche anno fa, quando gli uomini facevano la comunione a Pasqua, una volta all’anno: abbiamo tante volte ridotto la formalità all’essenziale, con quel pochino con cui appena si sopravvive, poi abbiamo visto il pendolo andare dall’altra parte perché abbiamo visto ricevere l’Eucarestia in modo automatico.

Quindi tutto questo richiede che la liturgia, come la vita parrocchiale, promuovano una consapevolezza che non è una questione da intellettuali, perché per raggiungere la convinzione che la tua mamma ti vuole bene, non hai bisogno di avere una laurea per capirlo.

Noi abbiamo uno strumento che si chiama cuore: san Tommaso diceva che nel nostro cuore abita, anche nella forma più semplice, quella voce che ti dice: “Cerca il bene per te e per gli altri”. Noi abbiamo, nel nostro cuore, un principio di giudizio che è direttamente espressione della fede. Per cercare questa consapevolezza, per vivere una fede così, non c’è bisogno di una laurea, bisogna semplicemente partire da queste frasi del Vangelo e provare a metterle davanti a noi come una domanda: “Signore, che io possa vedere!”.

Gesù, al cieco di Gerico, quando glielo portano davanti chiede: “Cosa vuoi che ti faccia?” La gente che Gesù aveva intorno avrà pensato: “Ma cosa vuoi che possa volere un cieco se non vedere?!” Invece no, Gesù conosce bene il cuore dell’uomo e sa che a volte noi siamo come uccelli che amano la propria gabbia, perché vederci, per il cieco, voleva dire uscire da una situazione di sicurezza, in cui veniva accudito, poteva avere mille scuse, vivere una vita senza responsabilità, tirare avanti alla meno peggio.

Quindi, dire: “Che io abbia la vista” voleva dire: “voglio essere un uomo vero”, non accettare più di vivere la vita al 50%. Questi sono i doni che il Signore fa e lo chiede anche a noi: “Cosa vuoi che ti faccia? Vuoi una vita così?”. E S. Benedetto comincia la sua regola dicendo: “C’è qualcuno che desidera la vita e brama lunghi giorni per vedere il bene?”. Questa è la domanda che dovremmo fare a ciascuno di noi, quando guardiamo la nostra vita.

Domanda

Come scalfire la superficialità per aiutare i ragazzi a giungere alla consapevolezza del valore dei gesti che proponiamo? Es. catechismo o educazione dei figli. C’è una difficoltà maggiore in questi tempi a far passare il senso della vita cristiana, pensiamo all’invasione dei social e degli altri mezzi di comunicazione che catturano e stordiscono i nostri giovani.

 

  1. Braschi

Il Cristianesimo si è imposto in una società dove si praticava regolarmente la prostituzione, l’aborto, e dove la pedofilia era una cosa normale. Se voi andate a Pompei trovate i segni di questo modo di vivere, sulla strada era indicato in modo inequivocabile il luogo dove ci si poteva prostituire. Sì, è vero che può essere difficile, oggi abbiamo dei mezzi più pervasivi, ma abbiamo anche avuto 2000 anni di tempo, io non vorrei che corressimo il rischio di pensare che il Cristianesimo è un’arma spuntata, che non ce la può fare....

Gesù dice: “Io ho vinto il mondo”, e dice qualcosa di assolutamente vero. Allora guardiamo questi ragazzi del nostro tempo con due certezze: la prima è che io non ho da dare niente se non quello che ho ricevuto, quindi la prima carità che posso fare a loro è curare la qualità della mia fede.

Per esempio, se io non riesco a vincere le angosce che ho per mille cose e la mia fede non mi aiuta, e la comunità non mi aiuta, allora sarà difficile sentire vero per me quando Gesù dice: “Non abbiate paura”.

La seconda è che il Signore ha canali per arrivare al cuore di ognuno più elaborati e più facili dei nostri. A me capita molto spesso che all’università dove insegno ci siano ragazzi che si appassionano alla teologia e vengono a dirti che da dopo la cresima non erano più stati in chiesa, oppure capita che una ragazza cinese, neanche battezzata, che segue il mio corso di teologia mi dice: “Ho capito che Gesù non dobbiamo tanto andarlo a cercare, ma che è Lui che viene a cercare noi.” Sono rimasto stupito! Ma questo per dire che il Signore ha strumenti più efficaci dei nostri! Sapere di scommettere sul cuore e sulla cura della propria fede è anche lo strumento di missione più importante che ho, e non temere di seminare senza veder crescere niente!

Anche Gesù, nella sua vita pubblica, ha seminato e non ha visto un gran raccolto. Frequentando Gesù, attraverso la preghiera e soprattutto la domanda, il pensiero di Cristo ti viene comunicato e una delle prove che ti viene comunicata è sperimentare una pace e, anche se sembra contradditorio ma non è così, contemporaneamente non viene meno lo struggimento, una passione educativa per chi abbiamo intorno.

Domanda

Che cosa mi succede se non do retta al mondo? L’idea che ci possa essere qualcosa di buono è sostenuta dal desiderio che ci possa essere qualcosa di buono, che va conosciuto: ci deve essere la nostalgia di qualcosa di buono. La testimonianza a cui siamo chiamati potrebbe essere anche l’occasione di creare delle possibilità che potrebbero essere oggetto di nostalgia anche per qualcuno, anche se poi i sentieri della vita li portano altrove.

  1. Braschi

Papa Benedetto dice: “Ciascuno di noi, senza volerlo ammettere, ha bisogno di un samaritano che lo consideri non per quello che ha prodotto, ma per quello che è”. Io penso che in questo bisogno inespresso ci sia la possibilità di ritornare alla fede. Da questo punto di vista l’anno della Misericordia indetto da Papa Francesco non era l’esaltazione unilaterale di un aspetto che separava dalla vita, ma era semplicemente questo tentativo che è quello di chinarsi su quest’uomo di oggi, che al di là delle sue pretese, dentro queste ferite, ha nostalgia di qualcuno che lo guardi non per quello che si merita, ma per quello che è.

Se dobbiamo ricreare qualcosa, cerchiamo di ricreare occasioni in cui uno si senta guardato così. Le chiese orientali hanno tutte, nell’affresco della controfacciata, il giudizio universale. Nel giudizio universale ci sono tutte le persone che vengono giudicate, c’è l’inferno, il paradiso… Ma nel paradiso, dove stanno entrando i giusti, troviamo già dentro il buon ladrone, il primo di tutti, e quando pensiamo a lui, non pensiamo a un ladro di galline, quello era un terrorista e un assassino! Gli orientali lo chiamano il “ladrone teologo”, perché, come dice Sant’Ambrogio, ha saputo  riconoscere Dio anche in Gesù appeso alla croce! Se noi riusciamo a diventare discepoli così, allora forse riusciamo a dare un po' di nostalgia buona agli altri, perché desiderino per se stessi quello che vedono agire in noi.

(Testo tratto dalla registrazione e non rivisto dall’autore)